A giudicare dall’incessante produzione scientifica sul recesso, la rottura unilaterale del contratto pare davvero un tema che non cessa di destare interesse.
Il motivo della costante attenzione sull’istituto è intuibile, del resto, considerando la latitudine delle conseguenze che esso produce. ...
A giudicare dall’incessante produzione scientifica sul recesso, la rottura unilaterale del contratto pare davvero un tema che non cessa di destare interesse.
Il motivo della costante attenzione sull’istituto è intuibile, del resto, considerando la latitudine delle conseguenze che esso produce. La manifestazione unilaterale di volontà, per giunta recettizia, con cui il “ritiro” unilaterale si sostanzia, presuppone una prerogativa soggettiva – quella di “pentirsi” di aver stretto l’accordo – che contraddice la concezione per cui il contratto vincola al reciproco rispetto dei patti, all’aspettativa nelle controprestazioni e al legittimo affidamento sulla loro continuazione, a meno che si decida, di comune accordo, di porvi fine.
Della necessità di tale facoltà, tuttavia, non si può dubitare. Il diritto potestativo con cui una delle parti decide di “tornare sui propri passi” risponde infatti a primarie finalità di economia dei rapporti giuridici, e così pure di razionalità del sistema, anche in virtù del principio di giustizia commutativa che innerva le dinamiche contrattuali.
Si tratta, insomma, di una facoltà che opera sì drasticamente sugli effetti del contratto, ma che al contempo favorisce la ricomposizione degli interessi negoziali, e per le circostanze più varie. A seconda dei casi, l’estinzione unilaterale fornisce il termine finale a un contratto che ne è privo, o interviene per evitare rapporti sine die. Consente di rimediare a disfunzioni del sinallagma (ad esempio l’inadempimento di una parte) ovvero a sopravvenienze che ne alterino l’originario equilibrio (come l’impossibilità sopravvenuta parziale). Protegge da decisioni affrettate o prese non del tutto consapevolmente, permettendo altresì, in casi specifici, di “abbandonare” il rapporto, a volte con, altre volte senza un corrispettivo per l’esercizio del “ripensamento”.