Il diritto della concorrenza, o antitrust, ha avuto un destino peculiare anche se comparato ai tortuosi e complessi percorsi del diritto. Anzitutto è stato oggetto in maniera molto intensa delle riflessioni della c.d. economic anaysis of law, e per tale ragione è stato (ed è ancora) popolato da s...
Il diritto della concorrenza, o antitrust, ha avuto un destino peculiare anche se comparato ai tortuosi e complessi percorsi del diritto. Anzitutto è stato oggetto in maniera molto intensa delle riflessioni della c.d. economic anaysis of law, e per tale ragione è stato (ed è ancora) popolato da studiosi armati di teorie economiche a loro dire in grado di spiegarne lo spirito e il funzionamento. In secondo luogo, e a conseguenza di ciò, da oltre sessant’anni, ossia da quando Robert H. Bork e Richard A. Posner hanno cominciato a pubblicare sui law journals statunitensi le prime analisi del diritto antitrust contenenti grafici che facevano riferimento alla price theory, si discute accanitamente di quali siano i suoi obiettivi. A seguire Bork, Posner e tanti altri autorevoli esponenti della c.d. scuola di Chicago, l’unico scopo dell’antitrust consiste nella promozione del consumer welfare (il ‘benessere dei consumatori’), talora indicato con l’altrettanto accattivante e ambigua etichetta di ‘efficienza economica’. Il che vuole dire, nella migliore delle ipotesi, che qualsiasi pratica commerciale che incrementa la ricchezza aggregata della società (tutti siamo inevitabilmente consumer di qualcosa), a prescindere di come questa ricchezza è distribuita, va approvata in quanto ‘buona e giusta’.
Vista con gli occhi del giurista, ossia di chi ritiene – per educazione di studi e di pensiero – che gli obiettivi di una disciplina vadano ricercati nell’intento del legislatore come oggettivizzato nel testo della disciplina medesima, si tratta di una tesi piuttosto stravagante ma, quel che è peggio, ingiustificata. Basti pensare che nello Sherman Act del 1890, la legge a partire dalla quale si è innescato il dibattito dogmatico a cui si fa cenno, non contiene in nessun punto né le parole ‘consumer welfare’ né la locuzione ‘efficienza economica’.
Per il vero, da questo lato dell’Atlantico la tesi del consumer welfare quale obiettivo esclusivo dell’antitrust, pur avendo guadagnato parecchi seguaci, non ha mai veramente convinto la maggioranza di chi il diritto lo deve scrivere, ossia le istituzioni legislative democratiche, e di chi lo deve applicare, vale a dire giudici, le autorità indipendenti e i giuristi in generale. Ovviamente nessuno obietta ad una interpretazione dell’antitrust che promuova la ricchezza dei consumer intesi come gruppo aggregato, ma esigenze diverse di tipo distributivo, sociale, e di bilanciamento delle diseguaglianze non sono mai state neglette. In particolare nell’ordinamento dell’Unione europea, la Corte di giustizia non ha mai esitato a tutelare, oltre che il consumer welfare e/o l’efficienza economica – la distinzione tra i due concetti, come detto, è sfumata – valori quali la libertà di scelta degli individui, la struttura competitiva del mercato, la correttezza delle transazioni, l’integrazione dei mercati nazionali. Si tratta di valori che nel concreto tengono conto del contesto sociale ed economico, della diversa forza contrattuale dei contraenti e dei caratteri specifici dei settori nei quali la disciplina è destinata ad applicarsi.
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