La presente monografia ha ad oggetto il “tempo” nell’esercizio dell’azione amministrativa, bene che – ad avviso di chi scrive – assume rilievo in modo autonomo e diretto nell’ambito del rapporto tra privato e amministrazione pubblica, rapporto sempre meno riconducibile al modello “au...
La presente monografia ha ad oggetto il “tempo” nell’esercizio dell’azione amministrativa, bene che – ad avviso di chi scrive – assume rilievo in modo autonomo e diretto nell’ambito del rapporto tra privato e amministrazione pubblica, rapporto sempre meno riconducibile al modello “autorità e cittadino”.
Lo schema che contraddistingue questo lavoro e che, al tempo stesso, mira ad essere una nuova proposta interpretativa, è – pertanto – il tempo quale valore meritevole di tutela nella dinamica procedimentale. E ciò indipendentemente dal segno, positivo o negativo, che andrà ad assumere il provvedimento finale. Con la conseguente risarcibilità anche del danno derivante dal “mero ritardo”, in una logica che riconduce l’inadempimento (o il ritardo nell’adempimento) non all’illecito extracontrattuale, ma alla più rassicurante responsabilità da contatto sociale.
Secondo tale impostazione, il contatto tra privato e Pubblica Amministrazione deve essere inteso come il fatto idoneo a produrre obbligazioni in conformità dell’ordinamento giuridico, dal quale derivano reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di informazione.
A conforto della proposta impostazione, si può oggi invocare la vigenza di molteplici norme che testimoniano un consistente incremento degli obblighi dell’amministrazione nell’esercizio dell’azione.
È, infatti, definitivamente scomparsa quella concezione autoritaria dello Stato che portava a far coincidere l’interesse generale con l’interesse subiettivo della Pubblica Amministrazione e, per l’effetto, a negare o, nella migliore delle ipotesi, a rendere estremamente complicata la tutela dei diritti e degli interessi toccati dal non corretto esercizio dell’azione amministrativa.
La piena integrazione nella dinamica del procedimento amministrativo di principi come quello della “buona fede” e dell’“affidamento del cittadino” conduce, invero, ad un rapporto paritario, con reciproci e puntuali obblighi e diritti. A ciò si unisce l’estensione agli enti pubblici, sempre con maggiore ampiezza, delle norme del codice civile di cui al Titolo IX del Libro IV, anche ad opera della giurisprudenza.
In quest’ottica, l’introduzione (ad opera del c.d. decreto semplificazioni) del “principio di buona fede oggettiva” nei rapporti con la pubblica amministrazione di stampo autoritativo nella legge generale sul procedimento amministrativo codifica, di fatto, quanto venuto a consolidarsi, negli anni, nel comune sentire, come la giurisprudenza e la dottrina più autorevole hanno avuto modo di testimoniare: i criteri di buona fede e di leale collaborazione non devono orientare (più) solo il versante privatistico dell’azione delle Amministrazioni pubbliche, ma assurgono al rango di parametri per la valutazione della stessa legittimità dell’attività amministrativa.
Si è così verificato, seppur in ritardo – nonostante le storiche segnalazioni della dottrina più attenta – (Merusi e Benvenuti) – il tanto agognato allineamento del modello italiano di pubblica amministrazione a quello già fatto proprio dai Paesi dell’Unione europea.