Questo volume, il decimo, chiude la serie dei miei Studi sulla ‘Collatio’, a cui mi sono dedicato nell’ultimo quarto di secolo. Non ho particolari conclusioni da trarre. Spesso, nei vari volumi, ho sostenuto tesi diverse. Non è detto che le più recenti siano quelle più convincenti.
Dopo tanto tempo e tante pagine spese, non ci sarebbe forse bisogno di spiegare perché abbandono questo filone di ricerca. Ci tengo però a dire che il “fine lavori” non è assolutamente dovuto all’avere esaurito gli argomenti. Ci sono tanti aspetti che non ho affrontato, e che, se l’anagrafe lo permettesse, potrebbero impegnarmi per ancora molti anni. Né è subentrata noia o calo di interesse.
Hanno inciso sulla decisione essenzialmente cinque fattori.
Il fatto che mi avvio – felicemente – alla fine della mia carriera accademica, e che questi libri sono stati destinati essenzialmente alla didattica. Gli studenti hanno costantemente dimostrato per essi – al di là dei loro evidenti limiti – attenzione, curiosità e interesse, che mi sono sembrati sinceri, e li ringrazio vivamente per questo.
Il numero ‘tondo’, dieci, che mi è sembrato adatto alla conclusione.
La sensazione, semplicemente, che è arrivato il momento giusto per smettere.
Il desiderio, finché le forze mi sorreggeranno, di dedicarmi ad altre cose.
L’avere lasciato – in ottime mani –, all’Università di Salerno, l’insegnamento di Diritti dell’Antico Oriente Mediterraneo. Mi sono dedicato ad esso con grande entusiasmo e passione, anche se in modo probabilmente dilettantesco e ingenuo. Ma è per me motivo di orgoglio avere sempre difeso questa piccola, preziosa bandiera di diversità, che offre una prospettiva epistemologica differente da quella delle tradizionali discipline romanistiche.
Credo che le scienze giuridiche siano minacciate, nel nostro cosiddetto Occidente, da due pericoli.
Il primo è rappresentato da quelle visioni per cui il diritto sarebbe solo ‘tecnica’, e non avrebbe bisogno della storia (se non, magari, in funzione ancillare nei confronti dello studio del diritto positivo). Chi ama davvero il diritto, si deve opporre a tali idee.
Il secondo è la diffusa convinzione secondo cui il diritto romano sia stato un figlio unico, o l’unico ‘bello’, o ‘sopravvissuto’, di una nidiata di fratelli ‘brutti’ o ‘morti’. Ciò è del tutto sbagliato. Non è stato l’unico diritto, nessun diritto, di per sé, è mai bello o brutto, e, se al mondo esiste ancora un diritto antico vigente, questo è il diritto ebraico, non quello romano. Chi ama davvero il diritto romano, si deve opporre a tale errore.
Il titolo del volume può sembrare un po’ forzato, perché nella Lex Dei c’è la giurisprudenza romana, ma non quella rabbinica. Ma, come ho spiegato, mi pare interessante interrogarsi su questa assenza. E ho anche provato a dimostrare come, nel testo, la stessa parola di Dio sia fatta diventare, in pratica, giurisprudenza.
Il primo capitolo, Vetus juris consultus, è già stato pubblicato, col titolo “Armata sapientia” e “Collatio”, su Iura & Legal Syustems 8 (2021) B, 21 ss. e in “Si vis veritatem cognoscere, quaere, et invenies”. Studi per Pasquale Giustiniani per il suo 70° compleanno, a cura di G. Tavolaro, Cantalupa 2021, 493 ss.
Il secondo, De juris prudentia, è una rielaborazione della relazione, intitolata Retorica e diritto nell’orazione ‘De juris prudentia’ di Gianvincenzo Gravina, pronunciata il 25 settembre 2021 al XXV Convegno Internazionale dell’Accademia Romanistica Costantiniana, dedicato al tema La costruzione del testo giuridico tardoantico, ed è in corso di pubblicazione sugli Atti Congressuali.
Il terzo, Il diritto senza tempo, è stato consegnato agli Studi in onore di Antonio Palma.
Il quarto, La ‘havdalà’ delle lingue, riprende, in modo ampliato e modificato, il testo della relazione, intitolata Gerusalemme, Alessandria, Efeso. Rotte del diritto ebraico (40-70 d.C.), pronunciata, il 26 novembre 2021, al webinar della Società Italiana di Storia del Diritto, dedicato al tema Mediterraneo. Un mare di diritti, e sarà pubblicata sugli Atti del Convegno, nonché negli Studi in onore di Maria Grazia Bianchini.
Ringrazio molto il Prof. Andrea Lovato, Presidente dell’Accademia Storico-Giuridica Costantiniana, e il Dott. Ariel Finzi, Rabbino Capo di Napoli e dell’Italia meridionale, che, con i loro due preziosi saggi in appendice, rispettivamente su La giurisprudenza romana come scienza ‘aperta’ e La ‘machlòket’, offrono nuove chiavi di lettura e danno luce e senso a quanto è scritto prima.
Il primo ci offre un vivido e suggestivo quadro della ricchezza della giurisprudenza romana come “iusti atque iniusti scientia” e “ars boni et aequi”.
Del secondo mi piace richiamare la frase finale: “credo di poter affermare… che la machlòket… potrebbe contribuire a porre fine alle guerre e a gran parte del male del mondo”.
La machlòket è la disputa, la libera e rispettosa dialettica di pensiero tra uomini liberi.
È la prima volta, in vita mia, che mi capita di concludere un libro in tempi funestati da una guerra nel cuore dell’Europa. E proprio poco prima di dare alle stampe queste pagine ho avuto l’onore di curare, insieme al Prof. Fasolino, un’addolorata silloge del mio Maestro, il Prof. Franco Casavola, dall’emblematico titolo Guerra e pace.
Le parole del Rav mi fanno riflettere sul fatto che il contrario del conflitto armato non è l’amore universale (concetto alquanto utopistico e irreale), ma il libero confronto di idee condotto con le armi della parola e della ragione. Ossia l’esercizio di quella che – come ricordato nel primo paragrafo del primo capitolo di questo volume – Gianvincenzo Gravina definì “armata sapientia”.