L’iscrizione e la valutazione delle partecipazioni nel bilancio d’esercizio è un tema ampiamente dibattuto dalla dottrina giuridica e aziendalistica sin dalla vigenza del Codice di Commercio del 1882. Per una trattazione sistematica non si può, quindi, prescindere da un’attenta ricostruzione...
L’iscrizione e la valutazione delle partecipazioni nel bilancio d’esercizio è un tema ampiamente dibattuto dalla dottrina giuridica e aziendalistica sin dalla vigenza del Codice di Commercio del 1882. Per una trattazione sistematica non si può, quindi, prescindere da un’attenta ricostruzione dell’evoluzione normativa e interpretativa, caratterizzata – nel corso del tempo – anche dall’intervento del legislatore comunitario.
La presente trattazione, pur affrontando la questione di fondo se il metodo del patrimonio netto – previsto, ora, in alternativa a quello del costo – debba considerarsi, quantomeno in alcuni casi, obbligatorio, prende le mosse dalla disciplina vigente all’epoca del Codice di Commercio, transitando per la normativa originariamente contenuta nel Codice Civile del 1942, per pervenire alla disciplina di attuazione della IV direttiva comunitaria e delle successive modificazioni e integrazioni, senza, peraltro, trascurare l’esame dei principali ordinamenti europei, dei principi contabili internazionali e dei principi contabili nazionali.
Così, in primo luogo, muovendo dalla constatazione che il metodo del patrimonio netto è l’unico che consente di superare lo schermo giuridico che si interpone fra società partecipante e società partecipata e che conduce alla valutazione delle partecipazioni sulla base della effettiva consistenza patrimoniale delle imprese partecipate, si tenterà di dimostrare che – quantomeno nell’ipotesi in cui vi sia una differenza significativa fra il valore risultante dal metodo del patrimonio netto e quello del costo – ci si trova in presenza di un’ipotesi di contrasto di un criterio di valutazione, quello del costo per l’appunto, con i principi generali, con conseguente obbligo di disapplicazione del criterio stesso e di adozione del metodo alternativo, quello del patrimonio netto.
Ma la più generale prevalenza del metodo del patrimonio netto trova conferma anche attraverso una ricostruzione storica della disciplina. Infatti, già nel vigore del Codice di Commercio, la dottrina riteneva che l’iscrizione al valore di costo non potesse essere assunta quale “regola generale”. Anzi, l’iscrizione a tale valore, da un lato, non forniva informazioni sulle condizioni attuali del patrimonio sociale e, dall’altro, comportava l’attribuzione della plusvalenza ad un unico esercizio – quello in cui aveva luogo la vendita delle partecipazioni –, anche quando la plusvalenza stessa fosse maturata nel corso di più esercizi. La dottrina più attenta, quindi, nel prendere atto che non esisteva un criterio di valutazione pacificamente accolto e, dunque, preferibile rispetto ad altri, considerava opportuno che i redattori del bilancio tenessero conto di tutti gli elementi che potessero incidere sul valore delle partecipazioni, procedendo anche ad un “esame ragionato” della situazione effettiva della società partecipata. Si gettava, quindi, un ponte fra la scarna disciplina dell’epoca e la normativa che, come si vedrà, avrebbe trovato applicazione molti anni dopo.