È con grande piacere che formulo queste brevi righe di prefazione e presentazione al volume della Professoressa Enrica Martinelli su un tema così problematico e rilevante, al confine dell’etica, della scienza e del diritto, con tutti gli interrogativi cruciali che ci pone come esseri umani prima ancora che come giuristi.
L’opera è frutto di una ricerca e sistematizzazione meritoria per presentare al lettore italiano, con impostazione critica e in una prospettiva storica, il pensiero ebraico sulla procreazione assistita e le soluzioni di diritto positivo cui è pervenuto in materia l’ordi¬namento israeliano.
La distinzione tra i due piani è importante perché, come noto, la Halakhah, il complesso delle regole in gran parte di elaborazione dottrinale che compongono il diritto ebraico in tutti i settori della vita personale e di relazione, codificata nel Talmud, e che è il distillato della sapienza ebraica di secoli di approfondimento della Torah scritta e dei suoi precetti, non si identifica col diritto del moderno Stato di Israele.
Allo stesso tempo, l’elaborazione halachica costituisce un punto di riferimento, in buona parte il sostrato o l’ispirazione del diritto positivo di Israele, soprattutto in materia di diritti della persona e relazioni di famiglia. Ciò è tanto più vero nella specifica materia dell’inizio della vita, rispetto alla quale per le nostre società si dischiudono nuove possibilità di generare, dare la vita a nuovi esseri umani in situazioni che finora non lo consentivano. La procreazione – matrice della riproduzione e quindi della continuità del ge¬nere umano – si può avvalere dei risultati della tecnica e dei progressi della medicina per generare nuove vite in modi che la sola natura naturalis non conosceva e la mente neppure poteva fino a poco tempo fa concepire. Dando origine spesso, in conseguenza, a rapporti tra genitori, altri soggetti coinvolti e figli – e contrasti tra di loro – che sono una sfida per discipline legali consolidate spesso da secoli. Spetta alla bioetica, così come in via di elaborazione nei contesti più diversi, formulare delle risposte morali che riflettano i valori della società e salvaguardino la dignità del singolo; al diritto compete offrire soluzioni conformi.
In effetti davanti a queste nuove possibilità tecniche, la coscien-za e il diritto faticano ad orientarsi e a porre limiti tra il possibile, il desiderabile e il moralmente accettabile e il legalmente lecito. L’ordinamento positivo si trova spesso a dovere dare risposte a situazioni irreversibili, a des faits accomplis, in presenza di una nuova nascita. Di qui la divaricazione, spesso intenzionale e strutturale, tra genitorialità biologica e legale, e la pluralità di soggetti in presenza che un tempo invece coincidevano: chi genera, chi è gestante, chi assume la genitorialità.
Queste sfide si pongono, soprattutto inizialmente, ai giudici e devono essere risolte dalla giurisprudenza, prima che il legislatore trovi soluzioni, scegliendo e mediando tra diverse sensibilità e tradizioni, in cui le religioni hanno una voce importante.
A loro volta i giudici, tra principi generali e precedenti particolari, non possono non farsi portatori delle tradizioni anche religiose delle società in cui operano, pur nella necessità di trovare soluzioni che rispondano all’esigenza concreta delle persone coinvolte, specie dei minori, alla protezione e alla tutela dei diritti fondamentali.
In questo l’ordinamento israeliano presenta un particolare interesse: da un lato la rigidità della tradizione, appena scalfitta da approcci più moderni, che la rendono ostica a costituire una base per lo sviluppo del diritto positivo tale da rispondere alle esigenze di una società contemporanea avanzata, che promuove e si affida alla scienza per superare i vincoli della natura naturalis. Dall’altro lato, l’importante ruolo ricoperto dai giudici, segnatamente dalla Corte Suprema, favorito dall’essere l’ordinamento israeliano alla cerniera tra le tradizioni di civil e di common law, ruolo necessitato dalla recente genesi dell’ordinamento stesso, non ancora consolidato e privo di una organica costituzione scritta.
Di questa dialettica è testimonianza il caso Nachamani del 1994 cui è seguita la Embryo Carring Agreement Law del 1996 sulla maternità surrogata, legge che a sua volta dà ampio spazio al ruolo del giudice, anche come mediatore, per facilitarne l’applicazione concreta.
Le dense pagine di quest’opera conducono il lettore con sicurezza in questa fitta selva di esigenze etiche, tradizioni, dottrine, re¬sponsi, sentenze e norme spesso contrastanti. In un’ottica comparatista l’autrice distilla dalla tradizione ebraica e dall’esperienza israeliana insegnamenti validi anche per le sfide che in questa stessa materia affrontano i nostri giudici e il nostro legislatore.