Come noto, il sistema delle Autonomie locali, in particolare dal 1990, ha conosciuto una stagione di notevole accrescimento della propria importanza, tanto sul piano funzionale, con il conferimento da parte dello Stato e delle Regioni di un numero sempre crescente di funzioni amministrative, tanto s...
Come noto, il sistema delle Autonomie locali, in particolare dal 1990, ha conosciuto una stagione di notevole accrescimento della propria importanza, tanto sul piano funzionale, con il conferimento da parte dello Stato e delle Regioni di un numero sempre crescente di funzioni amministrative, tanto sul piano organizzativo, con il riconoscimento sempre più marcato dell’autonomia, sotto molteplici profili, dei Comuni, delle loro forme associative e delle Province.
Per circa venticinque anni, il Legislatore ha costantemente valorizzato la dimensione locale dei pubblici poteri, rafforzando le guarentigie costituzionali degli Enti locali al punto tale da spingere la dottrina a scorgere, dietro la riforma del Titolo V della Costituzione, una evoluzione della forma di Stato: da Stato regionale a Repubblica delle Autonomie .
In tale contesto, l’ordinamento si è sviluppato in chiave sussidiaria, integrando funzioni e competenze tra i diversi livelli del governo locale, sino a rendere evidente la possibilità di identificare gli Enti locali come parte di un medesimo sistema, unitariamente considerato.
Un sistema di cui il Legislatore, sia statale che regionale, ha incoraggiato l’esistenza, plasmando su di esso la ripartizione dei pubblici poteri e affidando ad ogni attore, secondo le proprie caratteristiche, specifici compiti utili a meglio garantire la cura di una molteplicità di interessi pubblici.
Tuttavia, a partire dal 2011, con l’avvento della cd. “legislazione della crisi”, tale assetto ordinamentale è stato posto in discussione al punto tale da creare le condizioni per la sua rottura.
Il riferimento è ai tentativi di abolizione delle Province susseguitisi tra il 2011 ed il 2014, culminati con l’introduzione di un nuovo ordinamento degli Enti intermedi (l. n. 56/2014), configurati come enti di secondo grado, deprivati di funzioni, risorse e, soprattutto, del carattere dell’autonomia politica da un lato e finanziaria dall’altro.
Una riforma radicale, quindi, di uno degli elementi del sistema delle Autonomie, idonea a riverberare i propri effetti non solo sul livello di governo direttamente interessato dalla stessa, quello intermedio, ma sull’intero sistema di relazioni e interrelazioni (soprattutto funzionali) che il Legislatore ha inteso costituire tra i singoli componenti del sistema autonomico.
Ebbene, cosa accade quando la tradizionale struttura del sistema delle Autonomie locali, come in questo caso, viene a rompersi per il mutamento degli assetti organizzativi e funzionali di uno dei suoi componenti?
Le possibili risposte a questa domanda, obbiettivo al quale la ricerca tende, sono molteplici.
Esse possono essere ricercate (soprattutto) attraverso l’analisi dei singoli provvedimenti attuativi della cd. “riforma Delrio” emanati dalle Regioni autonome interessate, in quanto titolari della potestà legislativa primaria in materia di ordinamento degli Enti locali, al processo di attuazione della stessa.
A tal fine, il principale campo di analisi entro il quale la ricerca è condotta proprio quello dei sistemi di governo locale delle Regioni a Statuto speciale Sicilia, Friuli-Venezia Giulia e Sardegna, i quali offrono, ognuno per le proprie peculiarità, un punto di osservazione privilegiato sul fenomeno giuridico che si intende indagare.