Su di un punto il sistema economico capitalistico (in particolare, ma non solo, in Europa e America del nord) e il sistema economico pianificato dei paesi del socialismo reale (in particolare, ma non solo, in Unione Sovietica e Repubblica Popolare Cinese) sono stati accomunabili: un atteggiamento ba...
Su di un punto il sistema economico capitalistico (in particolare, ma non solo, in Europa e America del nord) e il sistema economico pianificato dei paesi del socialismo reale (in particolare, ma non solo, in Unione Sovietica e Repubblica Popolare Cinese) sono stati accomunabili: un atteggiamento basato su di una predazione da parte del sistema produttivo delle risorse naturali per alimentarne la continua crescita e sviluppo. Atteggiamento a cui si sta iniziando ad apportare dei temperamenti soltanto negli ultimi tempi.
Il diritto, come spesso accade, segue con ritardo l’emersione dei problemi, intervenendo quando essi sono già venuti a crearsi e magari si sono anche aggravati.
Lo schema giuridico che principalmente ha guidato questo saccheggio della natura, in particolare negli ultimi due secoli, è stato quello della proprietà, non soltanto lo schema della proprietà privata nel sistema capitalistico, ma anche quello della proprietà pubblica nei sistemi socialisti. In entrambi i contesti, infatti, le diverse forme di proprietà sembrano incontrarsi in un minimo comune denominatore che si potrebbe indicare, per semplificare, con lo ius abutendi. La caratterizzazione cioè di un potere di sfruttamento illimitato delle risorse, anche, ad esempio, a scapito della loro permanenza in favore delle future generazioni sulla terra.
Questo lavoro intende evidenziare come tale modello proprietario sia espressione di un’ideologia che ha trovato, in particolare dal Cinquecento, uno sviluppo lineare fino alla sua definitiva consacrazione nel BGB tedesco, orientando definitivamente in chiave individualistica, escludente e illimitata la forma di appartenenza proprietaria nei diritti contemporanei. La stessa declinazione pubblica di tale forma di appartenenza risente a sua volta di tale contesto ideologico, determinandosi cioè – sia passato il gioco di parole – una proprietà privata ad esempio dello Stato con le stesse caratteristiche evidenziate per lo Eigentum civilistico.
Autorevolmente si è sottolineato come si tratti di questione di “mentalità”, e quella ‘proprietaria’ sembra aver caratterizzato le società contemporanee a livello profondo, tanto da determinarne la difficoltà di coglierne la realtà storica.
A questa concezione, che sembra aver portato le società contemporanee ad una cultura della distruzione e con un fortissimo disinteresse per la tutela dell’ambiente, possono contrapporsi delle altre visuali. Ad esempio, pur se con intensità e con caratteristiche diverse in diversi periodi, due culture giuridiche antiche, anche molto distanti tra loro, quali quella cinese e quella romana mostrano di esser legate da elementi che conducono tendenzialmente nella stessa direzione. In Cina, in una visione che tende all’armonia dell’uomo con la natura, moltissimi sono gli esempi di regole volte ad evitare la distruzione delle cose e della relativa capacità rigenerativa; nel diritto romano, pare che la mentalità di fondo fosse comunque quella che si potrebbe riconoscere in un sintagma enucleato dai giuristi romani in materia di usufrutto, ma che ha un valore molto più pervasivo: salva rerum substantia.
Alla cultura del potere individuale di sfruttamento illimitato sino allo ius abutendi della forma proprietaria moderna di appartenenza, sembra opporsi quindi un’idea diversa, idonea a svelare dal punto di vista storico-giuridico la carica ideologica della prima e, dall’altro lato, a permettere criticamente una riconsiderazione dei contenuti delle nostre categorie giuridiche, senza per questo aderire ad un’idea di ‘cancellazione’ della nostra cultura, che resta ancora di stabilità inalienabile del nostro stesso esistere nel tempo.