Il “nuovo” predominio delle regole liberali nelle recenti “riforme” del Diritto del lavoro viene solitamente presentato come il superamento del vecchio ed inefficiente modello di regolazione dei rapporti di lavoro che -si dice- sarebbe causa diretta dell’inefficienza delle aziende e della loro non competitività. La flessibilità dei rapporti diviene totalizzante, con l’introduzione di nuove tipologie contrattuali o l’allentamento dei presupposti richiesti a tutela del lavoratore per l’utilizzo di contratti a termine, fino alla riduzione delle tutele in caso di licenziamento illegittimo.
L’opera di distruzione dei “vecchi” caposaldi del diritto del lavoro passa per un lavori quasi ventennale e questo spiega l’intervento continuo su alcuni istituti a fronte, anche, di interpretazioni giurisprudenziali non “conformi” agli obiettivi del legislatore (contro)riformatore.
D’altra parte, la formulazione della norma in modo prolisso e non sintetico sarebbe giustificata dall’obiettivo di superare l’intervento di un organo amministrativo o giudiziario deputato alla sua interpretazione e per ridurre gli spazi entro i quali la discrezionalità dell’organo deve essere esercitata. Si vorrebbe eliminare così l’incertezza dei soggetti interessati circa l’esito dell’eventuale giudizio.
Non vi è chi non veda in tale posizione l’interiorizzazione degli interessi dell’impresa, il suo bisogno di riportare il fattore lavoro ad un elemento di costo, meglio se basso e comunque certamente preventivabile e senza l’alea che discende da meccanismi che pongono a capo dell’azienda la durata del processo in connessione, ovviamente, della retrodatazione degli effetti di una pronuncia che può aversi a distanza di tempo dal provvedimento impugnato.
I principali istituti del diritto del lavoro vengono qui esaminati attraverso una precisa analisi tecnica che il più delle volte denota come la scelta del legislatore sia il frutto della sostituzione della ideologia solidaristica con quella “neoliberale”.