L’investigazione del testo, che pone il «valore di legge» ma che disorienta il diritto accostando al valore la «forza di legge», passa dalla sua scomposizione, dall’interrogazione delle lettere che sono depositate e custodite nei suoi anfratti, negli interstizi. Bisogna, cioè, seguire tanto l’esplicito, la superficie, quanto le tracce disseminate, talvolta nascoste, senza dimenticare che la superficie è tale per il profondo.
La ricerca muove da un’opzione ermeneutica. Ogni ricerca presuppone un’ipotesi preliminare, che l’inchiesta abbia già una direzione. In principio era il Verbo e il Verbo si fece carne, ma in un senso peculiare. Nella Seconda Lettera ai Corinzi, Paolo di Tarso disse che «la lettera uccide, lo spirito dà vita», opponendo la Legge cristiana, la buona novella, l’evangelo, la parola orale portata «sulle tavole di carne dei […] cuori», alla Legge ebraica, antica, immobile, rigida, scritta «su tavole di pietra». Altrove, però, nella Lettera ai Romani, precisò: «Togliamo dunque ogni valore alla legge mediante la fede? Nient’affatto, anzi confermiamo la legge», ove la legge, a cui il valore è qui già legato da una relazione di predicazione, è la lettera giudaica e la fede è lo spirito vivente della rivelazione cristiana. Ecco che il «valore di legge» è la secolarizzazione, più o meno consapevole, di un tema messianico. E, muovendo dalla prospettiva teologica in cui la Legge “significa”, si azzarda che «la lettera uccide chi la ignora». Contro lo spettro paolino, o meglio prima del paolinismo e poi dell’agostinismo, dell’ordine nuovo dello spirito contro la antica, morta, silente, lettera, questa lettura della Legge tenta di farsi carico del peso del testo, di “valorizzarlo” e di non ridurlo a figura, a immagine di altro, ad anagogia o ad allegoria con quel tanto di nichilismo che questa porta con sé, ove la lettera assume valore ancillare. La lettera della Legge è dura, nel senso che è, teologicamente, «scrittura su tavola» ed è, nel Secolo, scrittura incisa su carta. Ha una sua fissità, seppure alterabile. La sua normatività è tutt’uno con la sua inscalfibilità, con la sua resistenza e, dunque, con la sua positività. Ma – per restare dentro l’ordine discorsivo dell’interpretazione della Scrittura – non si avanza una proposta interpretativa masoretica, che venera superstiziosamente la lettera della Scrittura originaria e men che meno il pensiero e la voce di chi la creò e rivelò. Tutto al contrario. Per dirla nel discorso dell’interpretazione delle leggi e, tra esse, della prima legge, la Costituzione, implica il testualismo, ma non nella versione soggettivistica dell’original intent, perché i testi scritti, che sono “cose”, vivono di vita propria, separata dal loro autore (o “firmatario”) e dai lettori, potenzialmente infiniti, e producono sensi e conseguenze inintenzionali. Senza arrivare alla radicale conclusione strutturalista di Roland Barthes, che già nel 1968 decretava La mort de l’auteur, perché lo impedisce – ove ritenuta applicabile alla Costituzione/legge – l’art. 12 delle preleggi che prescrive di ricavare il senso della legge fatto palese (anche) dall’intenzione del legislatore, l’autore si trasfigura in funzione (dell’autore), perde la propria individualità e intenzionalità e si confonde, si disfa, nel discorso, nell’ordine del testo. La scissione strutturalista (e non solo) tra autore e testo nella teoria costituzionale conduce difilato al rigetto delle ragioni dell’originalismo ingenuo delle intenzioni e, con esso, del mito delle origini, ma non porta affatto all’oblio del testo in nome della esclusiva normatività della unwritten o living Constitution: sostiene, anzi, il privilegio della scrittura della legge e non della voce, del corpo e non del senso. Nel mezzo, contro il dualismo tra materia e pensiero, tra il significato immanente alle lettere, “cose scritte” nel testo e il tesoro delle intenzioni di chi scrisse la Costituzione, ciò che conta è la posizione, la “incorporazione”, nel documento costituzionale, nella scrittura che si fa testo nel senso proprio di “tessuto”, del «valore di legge» che, almeno nella “lettera”, è rimasto incorrotto e che quelle lettere hanno agito sul testo che le ha accolte e il testo ha retroagito su quelle nel tempo. Le possibilità discorsive e significanti del valore di legge dipendono, cioè, strutturalmente, dal reticolo di dati interrelati e interdipendenti che lo legano seguendo la logica interna al testo costituzionale. Va da sé che la valorizzazione della (lettera della) Legge presupponga, all’origine, un sottinteso ebraico e, quindi, la lotta alla polemica paolina contro il formalismo conservatore della legge (ebraica). È una polemica simile all’accusa di conservatorismo dell’originalismo testualista. A difesa, il testualismo è conservatore o meno a seconda del testo che serve e della relazione tra il testo dell’origine e le interpretazioni che ne sono seguite. Ma, contro l’originalismo, contro la conversione del testo costituzionale in Sacra Scrittura, la lettura che qui si esperisce si apre al commento – che quel reticolo sappia analizzare – del testo, alla sua significatività mai esaurita, che annulla la concepibilità di un testo originario inteso quale testo “autentico”.